Leonardo

Fascicolo 2


La nostra poesia contemporanea
di Alfredo Bona
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Se Franco Sacchetti vivesse ancora, non lamenterebbe più certamente, come fece in alcuni notissimi versi, che «vòte son le case di Parnaso», ma avrebbe piuttosto a dolersi del soverchio numero degli abitatori di esse. Chi si prende l'ardua cura di parlar di poesia contemporanea, non ancora serenamente valutata dagli anni, e di giudicare poeti, genus irritabile come tutti sanno, rimpiange di solito il decadere di essa, considerando il tempo della grande lirica come trascorso, e forse per sempre. Questo non si può recisamente affermare, anche se in modo abbastanza palese si veda che essa non incontra più il favore di quelli che di poesia s'intendono o fan le viste d'intendersi, i quali son purtroppo in gran numero. Le ultime odi del Carducci, nelle quali dalla forma mirabile traluce la potenza leonina dell'ingegno, non hanno trovato l'ammirazione e il consenso di tutti, mentre si lodano e si incoraggiano le cose tenui, le mezze tinte, le sfumature. E con assidua cura e diligenza scrupolosa s'evitano i grandi luoghi comuni che sono il fondamento della vera poesia, temendo la taccia d'imitatori e di vecchi, ancor che da molti si sappia, non foss'altro perchè l'ha detto un tedesco, che se il bello non è novo, il novo non è pur sempre altrettanto bello...
   Facendo una tale e tanta esclusione è facile comprendere che non si possano creare se non piccole cose, perchè troppo grande sarebbe lo sforzo della mente nella immaginazione, e sorpasserebbe il limite posto alla intelligenza umana. Ma al contrasto fra la potenza dell'ingegno e lo smodato desiderio di cose nove, si trova, in Italia come in ogni altro paese, quando si vuol creare qualche cosa di grande, un rimedio molto semplice ed anche molto curioso: si disdegnano i luoghi comuni d'età a noi vicine, ma non potendolo supplire in maniera efficace a tanta mancanza, si ritorna a quelli dell'antichità, anche perchè a molti, che di poesia giudicano con quella sicurezza che in genere proviene dalla scarsa cultura, posson sembrar cosa nova.
  L'importanza poi che acquista ogni giorno la prosa, e il prendere che fa atteggiamenti e modi che sono unicamente della poesia, (e tale conflitto ha lontana origine, perchè risale almeno al secento,) è un'altra delle principali cagioni della decadenza lamentata.
  Ma la nostra poesia contemporanea può dirsi in condizioni ne tristi nè liete, ed offre piuttosto, anzichè ad inutili rimpianti, materia di studio sulle varie tendenze che la determinano.
  Si può notare anzitutto nella maggior parte degli scrittori di versi, un inclinare al vago e all'indefinito quasi sfuggano loro le percezioni del mondo reale, gradatamente, mentre l'anima rimane come in uno stato d'estasi, e la volontà par che s'annienti a poco a poco nel mistero. Tale carattere, che allevia il poeta della individualità umana, e che deriva da un certo natural bisogno di quiete per le anime che han troppo amato e troppo sofferto - incontra favore di molti per quella leggera inclinazione trascendentale ch'è in noi


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alimentata sempre più dalla consapevolezza intima di scrutare invano la natura e che porta quindi, seguendo il naturale cammino, inevitabilmente al misticismo.
  In altri, allo stesso modo, si nota una certa sfumatura romantica, che differisce però compiutamente da quello che s'intende di solito con tal nome, tendendo non già alla malinconia ed agli affetti languidi, ma piuttosto alla esaltazione dell'io.
  Precursori di essa mi sembrano, oltre il Rousseau, persino gli eolici Alceo e Saffo e fors'anche Omero in qualche speciale tratto della sua poesia. E questo piegar dell'arte non ha minor numero d'ammiratori, perché essendo innata nell'anima di tutti la tendenza a questa esaltazione, siam portati ad ammirare non tanto i sentimenti propri e personali al poeta, quanto i comuni a lui ed a noi, che talvolta troviamo anche esplicati in modo chiaro e preciso, mentre erano in noi annebbiati e confusi.
  Ma in questo speciale genere si presenta non di rado il pericolo della così detta educazione di maniera, che impedisce la rappresentazione immediata ed obbliga chi lungamente seguiti per questa via, ad imitare sè stesso.
  In alcuni altri poi si rivela un carattere, dirò così, patologico o morboso degli affetti, poiché, non più si cantano, e questo è forse un bene, le Cariti «dal fresco fiato silvano», ma donne strane che, rappresentano quel tipo di bellezza che può chiamarsi della perversione, e che significa l'affinamento e l'esuberanza della sensualità. E ne vien di conseguenza che le passioni, le quali sono manistate dalla poesia, (la più alta delle voci umane, come quella che racchiude in sè tre elementi, idea, parola e ritmo,) da sane e schiette come dovrebbero essere in questa forma, ch'è il primo linguaggio letterario degli uomini, si faccian degenerare in morbose, e sì voglia sembrar decadenti ad ogni maniera.
  Anche il simbolismo, male comune in differenti età ad ogni letteratura, si mostra non di rado nella poesia contemporanea, segnando talvolta, colle vacuità canore dalle quali dovrebbe sorgere un significato spirituale, il limite della insipienza umana: vero è che Dante e il Petrarca si accostarono anche a questa maniera d'arte, ma si trattava però di cosa allora universalmente sentita, ed appar che ognuno d'essi racchiudesse nel simbolo la propria coscienza, «però quel che dice par che senta....»

II

  Ma benché non possa trovarsi fra i nostri poeti contemporanei chi non abbia manifestato più o meno queste tendenze o sia immune da tali difetti, tuttavia non si può tanto lamentare, come ho detto, il decadere della poesia. Se tace, nel superbo isolamento in cui ha voluto ritrarsi, Giosuè Carducci, il D'Annunzio instancabilmente lavora, e con rapidità meravigliosa crea opere d'arte che, a mio credere, dureran nella fuga dei tempi. Da pochi anni ha saputo conciliare i due speciali caratteri della vera poesia, la grande idea informativa e la perfetta plasticità della esecuzione artistica.
  Ricordo, di lui così di volo, le odi logaediche, la canzone di Garibaldi, nella quale ha usato con lievi mutazioni la monorima della antica chanson de geste, e che è degna veramente della grande epopea italica, quella in morte di G. Verdi, che segna, a mio credere, la perfezione dell'arte sua, impedendo la tirannia del metro al suo caldo ingegno di troppo espandersi e dilagare, l'ode a Bellini che pare un alito di vita Pindarica, quella pel centenario di Vittore Hugo, che, quantunque bella è però maggiormente più voluta che sentita, e le ultime altre, fra le quali l'Otre, che desta, per la fattura impeccabile e la novità delle rime, quasi in senso di meraviglia.
  Invece gli studi critici assorbono, tale è la giusta parola, Giovanni Pascoli, per cui ben di rado scrive ancora di quei versi, nei quali il mistero dell'arte nasconde il lungo e paziente lavoro, e toccano nel loro genere quasi la perfezione, non ostante che da alcuno vengan chiamati difetti e lo studio eccessivo di riprodurre con monosillabi inarticolati il canto dei varii uccelli, e l'uso di vocaboli incomprensibili ai non toscani, e il soverchio numero dì interrogazioni incidentali e fra parentesi, che spezzano il ritmo del verso e guastan della strofe il bello e naturale andamento. Ma la natura ch'egli sente profondamente ed alla quale è congiunto per mille legami invisibili, non potrebbe desiderare miglior cantore, perché i suoi versi destano quel mite e indefinibile senso di riposo e di quiete come le Georgiche e le Buccoliche di Virgilio antico. I suoi imitatori, a nessun maestro mancò d'intorno gregge servile, cantano e celebrano invece la natura senza amarla, non avendola conosciuta che in un ambiente artificiale e non comprendendo il linguaggio d'essa perché troppo semplice.
  Vicino ai tre maggiori sta degnamente il Marradi con quella sua luminosa poesia, chiamata a ragione «dal pieno petto». Oltre del paesaggio, ch'è il sentimento che più si lega all'anima, egli ha sentito, prima del D'Annunzio, la poesia del mare.
  Ben pochi in Italia l'han celebrato nei carmi: non troviamo che il Marino fra i vecchi poeti, e il Marradi e il D'Annunzio fra i moderni, al contrario degli altri paesi nei quali ve ne furono invece moltissimi come il Coleridge, il Byron, lo Shelley, l'Haine, il Whitman ed altri grandi. E il Whitman appunto egli sembra aver seguito trattando questo argomento di poesia, come in altri il Lamartine.
  Dopo lungo silenzio, colla Rapsodia Garibaldina, che non regge però al confronto della canzone del D'Annunzio, si è affermato ancora ultimamente nella piena maturità della sua arte: una sola menda credo sia da notar in questo suo ultimo lavoro, cioè la troppo lunga enumerazione dei personaggi, quantunque si possa obiettare che è maniera Omerica, come si vede dal secondo canto dell'Iliade.
  Tetro e lugubre è invece sempre Arturo Graf, che rappresenta in certo modo il «nichilismo morale», derivazione schopenaueriana. Benché la continuata tristezza dei suoi versi porti al lettore un vago senso di tedio, non si può fare tuttavia a meno di riconoscere in essi, benchè quasi inconciliabili, grandi e veri pregi, come la intensità di pensiero, la precisione plastica e quella malinconia crepuscolare che parla all'anima un arcano linguaggio.
  In molte poesie si trova il succo di paurose leggende e un carattere apocalittico e l'insieme è un po' troppo «strumentato alla tedesca», come si vede nella «Medusa» e nell'altro volume «Dopo il tramonto», ma nella sua calma composta ed uguale arriva, come negli «Imferi», a concezioni michelangiolesche e non si trova mai in alcuna parte atteggiamento retorico o declamatorio, pregio che non può vantare Mario Rapisardi, del quale è nota la gonfia verbosità, e il pensiero fisso di lotta e certi scatti un po' da istrione. Se avesse più serenamente concepito la vita, sarebbe riuscito poeta perchè n'ha l'anima, come appar dalle poesie religiose, ove anche l'espressione è più facile e piana. Del suo «Giobbe» fece la parodia Olinto Guerrini, dalla vena felice, che ebbe al suo tempo imitatoli e seguaci infiniti. Ma l'essersi camuffato da Argia Sbolenfi, e lo scrivere, con intendimento un po' troppo pratico, un sonetto in lode dell'acqua di Barbianello ed altre simili cose, han bastato ad oscurar la sua fama.
  Alcune delle sue doti migliori ma pure Enrico Panzacchi, unite ad un più serio intendimento artistico ed a una certa armonia del verso, pregi che servono a compensare un poco la misera concezione poetica e la scarsa ispirazione, difetti messi più in luce ancora nell'ultimo suo libro di versi « Cor sincerum », dove anche della tecnica ha avuto pochissima cura.
  E Giuseppe Chiarirli poi è degno di ricordo soltanto per la raccolta delle «Lacrimae», perché ispirate a un dolore e ad un affetto sentiti, che fan dimenticare quella ostentata ricerca della semplicità, che lo porta, negli altri suoi versi, ad esser molto pedestre. A me sembra però che subordini, per le troppe ristampe delle «Lacrimae», il dolore paterno ad uno scopo forse un po' troppo pratico: e non è improbabile che dal vedere ch'è dei pochi, ai quali abbastanza frutti «quella secrezion muccosa», «che si chiama l'affetto», derivi anche l'essersi preso, or non è molto, un poco troppo sul serio. Di molti ancora come del Milelli, del Pastonchi, del Tumiati, del Colautti e d'altri, parlerò più comodamente altra volta.

III

  Dirò soltanto ancora di, due poetesse che non possono venir taciute perchè degne senza dubbio di lode.
  Si è fatto da molti spesse volte questione se le donne abbiano o no meno ingegno degli uomini e concludendo sempre per il primo


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caso, si sono addotte a sostegno ragioni stranissime, come quella, ad esempio, ch'esse hanno il cervello di minor peso del nostro.
  Benché il gentil sesso non abbia dato mai uno di quegli ingegni poderosi, che appaion come la sintesi di un «corso» dell'umanità, io credo tuttavia che esse non l'abbiano a noi inferiore, ma diverso, per modo che non raggiungono alcuna sommità quando voglion far quello che gli uomini fanno, non essendo della loro natura prendere tali vie. Ricorderò a maggior conforto di quanto dico, poìchè si tratta qui di poesia, l'età che dette maggior numero di poetesse, il cinquecento. Ebbene di tante illustrissime dame, nelle classiche discipline compiutamente versate, chi si ricorda volentieri ora, all'infuori di Gaspara Stampa, la quale si è conservata sempre donna ed ha come tale amato, sofferto e pianto?
  E donne si conservano abbastanza, le due maggiori Vittoria Aganoor e Ada Negri. Le poesie della prima, discepola dello Zanella, sono notevoli, oltre che per la lingua pura e il classico andamento della strofe, anche per quel certo tono sdegnoso che appar qua e là, e per la maniera semplice colla quale espone cose difficili a dirsi.
  Ada Negri, la quale, benchè di minor valore, ha reso più noto il suo nome per lo speciale temperamento poetico, è più spontanea e più nata alla poesia.
  Il grande movimento economico ed umanitario della nostra età, e ha dato calda ispirazione sovente, ma se ben si addice ad un cuore di donna attristarsi e trar lamento delle miserie altrui, dispiace vederla, anche se in buona fede, tanto partigiana e portar sempre alle stelle le moltitudini, che spesso non sono nè intelligenti nè generose.
  È vero però che da qualche tempo, forse perché son mutate le condizioni di sua vita, ha mitigato abbastanza i suoi ardori, ed è molto probabile che ripensando talvolta agli ideali puri e santi lungamente accarezzati, debba dire in cuor suo col poeta: «or non è più quel tempo e quella età....»
  Sono giunto così alla fine di questo rapido cenno sulle tendenze della odierna poesia e su' più grandi cultori dì lei, e credo, che non ai soliti lamenti, ma a bene sperare vi sia piuttosto cagione nell'avvenire.
  Ho sott'occhio da qualche giorno la terza ristampa della raccolta che Eugenia Levi fa con diligenza e buon gusto delle poesie dei nostri contemporanei: chi vede tanta e bella messe poetica, non può disperar pel futuro, anche se n'abbia la inveterata abitudine.
  Una decadenza fu, è vero, nella seconda metà dello scorso secolo, derivante dal febbrile spirito scientifico che invadeva tutte quante le menti. La fisica e il calcolo disvelavano ogni giorno imprevedute meraviglie agli occhi estatici degli uomini, e fu creduto a torto di poter col soccorso valido dell'una e dell'altro penetrar tutti i misteri.
  Ma delusione e scoramento tenner dietro a questa baldanza, e molti, accortisi probabilmente d'aver l'anima della stessa materia onde sono fatti i sogni, tornarono con passi non lenti, per aver gioia o quiete, al culto della poesia, che è come la scienza, una delle due grandi interpretazioni dell'Universo.


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